Data-Driven Coronavirus: come lo può interpretare un marketer?

Un blog di un’agenzia di Comunicazione e Digital Transformation non dovrebbe parlare del Coronavirus o più propriamente del SARS-CoV-2 (precedentemente 2019-nCoV) che origina la malattia COVID-19 che in questi giorni si sta diffondendo in Italia e in Europa dopo aver colpito profondamente la Cina.

Al limite potrebbe parlarne in termini di “studio di comunicazione delle istituzioni” o di “simulazione informatica”: noi abbiamo deciso di parlarne invece come puro e semplice “buon senso” basato sui dati dal momento che la Data Analytics è uno dei nostri principali strumenti… e da qui la dicitura di data-driven coronavirus.

Negli ultimi giorni siamo stati sorpresi da dubbi, perplessità, certezze, paranoie e tante altre manifestazioni comportamentali che non trovano fondamento alcuno non solo nella logica ma anche nella statistica e nell’aritmetica ovvero non sono assolutamente da considerare “data-driven“.

 

Un modello di interpretazione.

Come ha anche ricordato Paolo Giordano in un suo editoriale del Corriere della Sera del 26 febbraio 2020 che tratta proprio il concetto di data-driven coronavirus, un essere umano, durante una pandemia (che interessa “tutto il popolo”) o un’epidemia (che interessa “le persone”) può appartenere a tre diverse categorie:

  1. Suscettibili (S), cioè le persone che potrebbero essere contagiate;
  2. Gli Infetti (I), cioè coloro che sono già stati contagiati;
  3. I Guariti, i Recovered (R), cioè quelli che sono stati contagiati, ne sono usciti e ormai non trasmettono più il virus. 

Gli epidemiologi chiamano questa “classificazione” appunto con il nome di “modello SIR” che si basa anche sul concetto di appropriarsi di un’apposita etichetta tra S (suscettibili), I (infetti) e R (recovered, che non vuol dire “ricoverati” ma “guariti”); la classificazione è il punto di partenza per parlare di data-driven coronavirus.

In abbinamento a tale modello torna molto utile anche il concetto di R0 (“erre con zero”) che rappresenta il numero medio di persone che un infetto riesce a contagiare a propria volta: per il nostro “simpatico” virus proveniente con ogni probabilità da pipistrello e serpente tale indice si attesta tra 2,5 e 3.

Ogni persona appartenente alla categoria I (infetti) riesce a portare nella propria categorie altre due persone e mezza: molto meno di altri virus molto più aggressivi come la parotite che ha R0=11 o il morbillo che ha R0=18.

Quando questo indice ha un valore inferiore o uguale a 1, il rischio di diffusione è basso.

Però è chiara una cosa ovvero che quando questo indice è superiore a 1 significa che ogni infetto ha un effetto esponenziale.

Esattamente il concetto di “virale” che usiamo, noi del mestiere del marketing, quando parliamo di “post virale su Facebook”: un post di un soggetto viene condiviso da 3 persone che a loro volta consentono ad altre 9 di condividerlo che a loro volta lo fanno condividere ad altre 27 con il risultato che in tre passaggi siamo già a 40 persone (1+3+9+27).

Nel grafico che segue anche solo fermandosi al secondo passaggio si comprende l’effetto ottenuto.

Data Driven Coronavirus R0 3

In breve se questo indice è inferiore a 1 possiamo quasi ignorare quello che succede perché la diffusione si arresta da sola (come quella del post commerciale della pagina Facebook con 5 like e che non spende nemmeno un centesimo di euro in advertising) mentre quando è superiore a 1 si produce, appunto, l’effetto “virale” che gli esperti di marketing cercano e che nel mondo reale si chiama epidemia (quando va bene) o pandemia (quando va peggio).

Un esempio di epidemia sui social è “Morgan Vs Bugo”, un esempio di pandemia è invece “Ice Bucket Challenge”.

In questo contesto la spasmodica corsa a limitare i contatti umani che avviene con le quarantene, le zone rosse, le chiusure delle scuole e altri interventi da molti criticati hanno l’obiettivo primario di ridurre il valore di questo fantomatico R0.

Se sono una persona infetta (I) che entra in contatto con 100 suscettibili (S) avrò più probabilità di raggiungere il mio obiettivo di riuscire a infettarne altri 2,5 o 3; se invece me ne sto solo soletto nella mia mansarda con una mascherina sul viso e non incontro nessuno la mia forza di “diffusione” sarà inefficace perché non troverà vittime sacrificali.

Questo KPI deve essere portato sotto 1 perché a quel livello l’epidemia o la pandemia inizia a scendere.

Cosa succede però se altri comuni, province, regioni e soprattutto stati non fanno esattamente la stessa cosa di chi lo sta facendo ma fanno finta di stupirsi per 80.000 casi di “influenza stagionale particolare” o se decidono di fare un solo test ogni 100.000 pazienti? Succede che a livello generale il valore R0 torna superiore a 1 e che quindi gli sforzi di “zone rosse” e simili sono del tutto vanificati perché l’amico francese ha preso un aperitivo con l’amica bolognese e il manager tedesco ha infettato 2 o 3 colleghi pugliesi: quello che hanno fatto prima i cinesi e gli abitanti di Codogno poi.

In tutto questo, la malattia originata dal virus, la cosiddetta COVID-19, non ha un alto tasso di mortalità: 80% dei casi sono quasi asintomatici, 15% hanno bisogno di ospedalizzazione, 3% sono gravi e 2%, purtroppo, muoiono.

Di 100 infetti (I), dunque, ben 98 diventano guariti (R) e 2 muoiono; i deceduti molto spesso sono rappresentati da persone con altre patologie o età particolarmente significative (per inciso: è bello osservare come un settantenne sia giovane quando si tratta di mandarlo in pensione e esageratamente vecchio quando deve essere lasciato morire per una malattia…).

E’ proprio questo il rischio più grosso: tante persone non sanno di essere infette, altre (i suscettibili) non hanno paura perché tanto “è poco più di un’influenza” e quindi ogni misura di contenimento sembra esagerata.

E’ facile capire come in questo contesto il livello di R0 invece di scendere salga ulteriormente e, considerando l’intera popolazione italiana e quella europea, applicare un “banale” 20% di ospedalizzazione, comporta dei numeri così elevati che i nostri ospedali dovrebbero essere moltiplicati, probabilmente, per 10.

 

Individui e collettività

La malattia non è pericolosa per il singolo individuo ma lo è per la collettività: lo stesso identico criterio che ci sta portando a distruggere l’ambiente, lo stesso identico criterio che da un’offesa singola su Internet si arriva a persone esasperate che si suicidano, lo stesso identico criterio di chi non fa beneficenza perché “cosa posso fare con i miei 100 euro all’anno da solo?”.

Maggiore è la concentrazione di infetti contemporanei, maggiore sarà il fabbisogno di posti letto e attrezzature specifiche negli ospedali.

Immaginate di comprare una casa con un mutuo o di doverla pagare in contanti, il concetto è esattamente lo stesso: con il mutuo in 30 anni magari ce la fate mentre se doveste pagare tutto e subito sarebbe impossibile.

Quindi quello “scarso” 2% di mortalità sale probabilmente al 18%.

Il solo modo di pagare il conto a SARS-CoV-2 / COVID-19 è dunque a rate.

Ci sono sacrifici da fare, ma ne vale la pena. Sul serio.

Data-Driven Coronavirus è anche questo: usare i dati prima dell’ansia e comportarsi individualmente e collettivamente di conseguenza.

Data-Driven Coronavirus: Data Analytics & Considerazioni.. Ultima modifica: 2020-02-28T20:09:03+01:00 da Marco Biagiotti